Miguel Angel Montuori

 

Miguel Angel Montuori è stato tra i numeri 10 più forti della Fiorentina. Aveva i lineamenti da indio e il fisico minuto, ma il suo genio e la sua tecnica erano straripanti. Segnava tanti gol e, al tempo stesso, sapeva mettersi al servizio dei compagni, dispensando assist e giocate raffinate. A portarlo a Firenze fu il direttore sportivo Giachetti che andò a prenderlo fino in Cile, su segnalazione di un sacerdote italiano, padre Volpi, che lo aveva visto giocare nell’Universitad Catolica di Santiago. Nato a Rosario, in Argentina, il 24 settembre 1932, Montuori sbarcò a Firenze nel 1955 e vinse subito lo Scudetto, segnando 13 reti in campionato (secondo solo al centravanti Virgili che ne realizzò 21). Il suo talento fece innamorare Fulvio Bernardini che non lo tolse mai di squadra, affidandogli la prestigiosa maglia numero 10. Nei successivi campionati in viola arrivò per 4 volte consecutive al secondo posto, giocando la finale di Coppa dei Campioni nel 1957 e vincendo la Coppa delle Coppe nel 1961. Ma la sua carriera non fu tutta rose e fiori. Anzi Montuori fu bersagliato dalla sfortuna: proprio nel 1961, in fase di recupero da un infortunio, l’argentino (già naturalizzato italiano) fu mandato in campo dall’allora allenatore Hidegkuti, nella squadra riserve per testare le sue condizioni.  Si giocava a Perugia e, nel corso della gara, fu colpito alla tempia da una forte pallonata. Miguel Angel perse coscienza, poi si riprese. Ma al mattino seguente cominciò a vedere doppio, afflitto da una grave forma di diplopia. L’unica cura prescrittagli fu il riposo assoluto che lo costrinse a letto per 3 mesi. Dopo di che fu operato a Padova, ma il verdetto fu impietoso: non avrebbe potuto più giocare al calcio. Così, ad appena 28 anni, si trovò a dover cominciare una nuova vita nella quale fece un po’ di tutto, anche il giornalista, grazie all’interessamento del direttore del Brivido Sportivo Paolo Melani che avrà un ruolo importante anche nel prosieguo della sua vita. Nel 1963 un altro problema di salute: un aneurisma, forse dovuto al precedente intervento che gli aveva causato problemi di mobilità, che lo costrinse a finire nuovamente sotto i ferri a Careggi. Poi tentò la carriera di allenatore, guidando Pontassieve, Aglianese e anche le giovanili del Montecatini. Ma non riuscì a trasferire in panchina il suo talento di calciatore, cominciando ad attraversare difficoltà economiche che lo spinsero a vendere la casa fiorentina per tornare in Cile con la famiglia, nel 1971. In Sudamerica provò, senza successo, a proseguire la carriera di tecnico. Fino al 1988 quando, su iniziativa degli ex compagni dello Scudetto del 1956 e di Paolo Melani, fu invitato a Firenze per la celebrazione dei migliori numeri 10 della storia viola. Una volta arrivato con la moglie Teresa (due dei suoi figli si erano già trasferiti da tempo in città), fu accolto con grande calore e gli ex compagni lo convinsero a non riprendere più il volo di ritorno e ad accettare in regalo un appartamento all’Isolotto che divenne la sua nuova casa. Montuori ebbe anche un impiego alla biblioteca comunale e il presidente dell’Isolotto Calcio gli offrì l’incarico di supervisore delle giovanili. Lavoro a cui Montuori si dedicò con grande dedizione, scoprendo il talento di Francesco Flachi che segnalò alla Fiorentina. La sua vita finì il 4 giugno del 1998 quando un male incurabile lo strappò all’affetto dei suoi cari e di tutti i tifosi viola che ebbero la fortuna di vederlo giocare. Oggi, 24 settembre, Montuori avrebbe compiuto 87 anni e noi del Brivido abbiamo voluto ricordarlo attraverso lee sue gesta in viola.

Kurt Hamrin

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«C‘è un’ala al mio paese che non ha rivali in Europa. Si chiama Kurt Hamrin. Il giorno che metterà piede in Italia, farà stravedere» disse di lui Nils Liedholm. All’epoca Kurt Hamrin ha poco più di vent’anni e una fama ancora acerba fuori dai confini svedesi. In patria tuttavia è già qualcosa più di una promessa: frequenta infatti la Nazionale, da quando si è rivelato precoce talento nelle file dell’AIK Solna, squadra di un sobborgo di Stoccolma, vincendo la graduatoria dei cannonieri a vent’anni con 22 reti in 21 partite. Vola leggero come un uccellino (e questo diventerà in Italia il suo soprannome), tanto il suo dribbling è leggero e aerea la rapidità di movimenti; quando però si tratta di colpire, la sua efficacia è micidiale e proprio l’abilità in zona gol ha solleticato i grandi club italiani, notoriamente sensibili all’argomento “campioni stranieri”.

Nel 1955, in occasione di un’amichevole in Portogallo con la Nazionale, in tribuna c’è Sandro Puppo, allenatore della Juventus. L’occhio dell’esperto non tradisce e a fine partita lo stesso tecnico avvicina il giovane Kurt (non è ancora tempo di procuratori…), chiedendogli se se la sentirebbe di partire per l’Italia, destinazione Juventus.

Chiudeva la sua carriera svedese con 59 gol in 63 partite di campionato. E gli effetti non furono granché, non tanto per colpa sua, ancorché un minimo prezzo all’ambientamento fosse logico che lo pagasse, quanto per la stagione infelice vissuta dall’intera squadra.

Il suo ingresso in scena fu fragoroso, scortato da due acquisti boom quali dovevano rivelarsi quelli di John Charles, centravanti, e Omar Sivori, genio, entrambi goleador emeriti. Hamrin venne sacrificato non solo alla dirompente classe dei due, ma anche all’idea di una certa fragilità che il suo andirivieni dall’infermeria alla squadra aveva suggerito. L’esordio era stato fulminante: doppietta all’Olimpico contro la Lazio, rete alla Spal la domenica dopo a Torino. Ecco una nuova stella, avevano titolato i giornali, sull’onda di un guizzo in area leggero e inafferrabile come una piuma che un attimo prima del gol disorientava difensori e portieri.

Poi, erano cominciati i malanni, infortuni uno dietro l’altro a bollare le sue caviglie con un’etichetta imbarazzante: “di vetro”. Venne ceduto in provincia, al Padova, che sotto la guida di Nereo Rocco faceva incetta di campioni dismessi dai grandi club e li ricostruiva assieme alle proprie fortune. Kurt Hamrin non solo non aveva le caviglie di vetro, ma in quell’anno a Padova dimostrò di possedere armi micidiali sulla via del gol. A fargli compagnia in avanti, un altro “infortunato di lusso” dell’anno prima, il centravanti Sergio Brighenti della Sampdoria, destinato a salire fino alle prime posizioni nella graduatoria assoluta dei cannonieri italiani di tutti i tempi.

I due si intendevano talmente bene da dar vita a una coppia d’attacco micidiale, che coi suoi gol fiondò la provinciale di lusso fino al terzo posto in classifica, record assoluto della storia biancoscudata, dietro Juventus e Fiorentina. Inevitabile che il “big” recuperato lasciasse in fretta il bacino di carenaggio di provincia, per mete più prestigiose.

Hamrin tornò alla Juve, che, già coperta com’era in fatto di assi di fuorivia, non faticò a trovare estimatori per quel minuscolo gioiello da 20 gol in 30 partite, che nell’estate di quell’anno, il 1958, ebbe modo di incantare il mondo in Svezia, arrendendosi con la Nazionale di Gren e Liedholm solo al Brasile, in una finale piena di gol e magie. La Fiorentina, dunque, reduce dal secondo posto e ansiosa di offrire una continuazione tricolore allo scudetto del 1956, si prese il vicecampione del mondo, nel quadro di una generale operazione di rinnovamento.

Il presidente Befani chiudeva il fastoso capitolo Bernardini, per portare in panchina Lajos Czeizler, il “Buddha” del calcio italiano, un allenatore ungherese “macchiatosi” per la sollecita eliminazione dal Mondiale 1954 alla guida della Nazionale. Se ne era andato il favoloso Julinho, aveva lasciato Firenze anche il discusso Virgili, poderoso ex enfant prodige, ormai criticato da una vistosa parte della tifoseria e c’era un gran bisogno di volti nuovi, specie in attacco. Hamrin avrebbe dunque preso il posto del brasiliano, fidando che la diversità del proprio gioco lo riparasse da diretti confronti, mentre al centro dell’attacco andava a piazzarsi il virgulto Petris, di ritorno dopo l’esperienza alla Triestina.

Esplosivo l’impatto sul campionato, complice il nuovo modulo di Czeizler, che abbandonava il contropiede caro all’alchimista (dello spettacolo) Bernardini per sguinzagliare i propri veltri in un modulo tempesta e assalto, tutto volto all’offesa. Ne sortì il terzo consecutivo secondo posto, con ben 95 reti realizzate in 34 partite e lo scudetto a un soffio, i tre punti in più totalizzati dal Milan. L’effetto-Hamrin fu dirompente e basta il dato numerico a sintetizzarlo: 26 gol in 32 partite.

Stupiva soprattutto, del nuovo idolo di Firenze, la leggerezza soave con cui levitava sulla partita, una sorta di foglia sospinta dal vento sempre nella stessa direzione: il gol. Dribbling fulminante, tiro implacabile dopo il classico zig-zag in area che ubriacava i difensori disorientando il portiere. Kurt, idolo della folla, capace di cancellare l’ombra malinconica di Julinho l’asso della fantasia. Felici furono anche le successive stagioni, pur nel declino della squadra. Andatosene zio Lajos, fu un altro straniero, l’argentino giramondo Luis Carniglia, a cogliere il secondo posto (quarto consecutivo) e poi lentamente i gigliati scesero di qualche gradino, accomodandosi su un terreno di sia pure aurea mediocrità, cui conferì peraltro non lieve lustro la conquista della prima Coppa delle Coppe e della Coppa Italia, nel 1961, e poi di nuovo la Coppa Italia oltre alla Mitropa Cup nel 1966.

Così recentemente Hamrin dichiarò l’amore per la Fiorentina e Firenze: «è una città piccola, c’è una mentalità provinciale e se arriva lo scudetto, come è successo nel ‘56 e nel ‘69, è un fatto episodico, che purtroppo non ha seguito. Le grandi città del calcio sono Milano con Inter e Milan e Torino con la Juventus. Quando arrivai a Firenze la squadra era molto più grande della società, che non aveva peso politico. Con una società più forte alle spalle, nel ‘59 e nel ‘60 avremmo anche potuto conquistare lo scudetto, anziché arrivare secondi».

Kurt Hamrin restò inafferrabile pilota dell’attacco fino al 1967, cogliendo tra l’altro un prestigioso primato. Accadde nel campionato 1963-64: seconda giornata di ritorno, a Bergamo la Fiorentina superò l’Atalanta con un eclatante 7-0 e ben 5 reti portavano la firma dell’inafferrabile Kurt, che diventava (e rimane tuttora) primatista assoluto delle reti segnate in trasferta in una sola partita.

A un certo punto però, si cominciò a dire che Hamrin era diventato vecchio. In realtà, la Fiorentina si era molto ringiovanita, lanciando per motivi economici una “linea verde” destinata a riportarla sulle piste dello scudetto. Coi suoi trentun anni Hamrin era il “nonno” della compagnia e così infatti lo chiamavano, come lui stesso ha recentemente rivelato: «Ero un po’ la chioccia di quei ragazzi, tanto che mi chiamavano affettuosamente “nonno”. Invitavo spesso a cena a casa mia De Sisti, Merlo, Brugnera e Bertini: mia moglie la chiamavano “mamma”!».

Qualcuno temeva che non fosse in grado di reggere i ritmi della compagnia di ragazzini e così anche l’idolo svedese di una intera tifoseria a un certo punto, annacquata leggermente l’immagine da un logico calo del numero di gol, fece le valigie. A premere per servirsi ancora dei suoi guizzi e della sagacia tattica con cui l’esperienza lo guidava a surrogare l’appannamento dello scatto e della forza fisica fu Nereo Rocco. L’antico “Paron” lo aveva rigenerato da ragazzino nel Padova, poi lo aveva richiesto per il suo Torino nei primi anni Sessanta, per ripiegare poi sull’altro attaccante viola, l’eterna promessa Orlando, nel timore che fossero risorti i guai fisici degli inizi italiani.

Nel 1967 dunque Rocco, tornato all’ovile rossonero, si ingegnò a costruire una squadra formidabile, mescolando insieme gioventù ed esperienza. Chiese dunque Hamrin e la Fiorentina, che voleva Amarildo, accettò, dovendo sborsare come sovrappiù un centinaio di milioni, Non tutti erano d’accordo: gli intellettuali fiorentini furono addirittura sul punto di riunirsi per firmare un manifesto contro la partenza di “Uccellino”. Lasciava comunque con 150 gol, primato assoluto in maglia viola fino all’avvento di Batistuta. L’operazione fece la fortuna di tutti. La Fiorentina di lì a un paio di stagioni avrebbe chiuso con lo scudetto la generale crescita di quella memorabile covata di giovani. Rocco invece col suo Milan vinse a raffica: Coppa delle Coppe, scudetto e Coppa dei Campioni in due anni.

Così ricorda Hamrin il suo amato Paròn: “Non me l’aspettavo. Avevo 32 anni, ma Rocco aveva chiesto espressamente tre elementi di esperienza da inserire in una squadra giovane: Cudicini in porta, Malatrasi al centro della difesa e io in attacco. In quella squadra c’erano Trapattoni, Rosato e Rivera. E in due anni vinco tutto: la coppa delle Coppe, lo scudetto e l’anno successivo la Coppa dei Campioni“. E mette la firma personale nel primo successo: a Rotterdam sono due gol di Kurt nei primi 19’ a dare al Milan la coppa delle Coppe contro l’Amburgo. È il 26 maggio 1968.

Emigrò poi al Napoli, primo acquisto di un giovane presidente, Corrado Ferlaino. Sotto il Vesuvio chiuse la lunga e onoratissima carriera, a quasi trentasette anni.
“Napoli è la cosa più bella che possa capitare ad un calciatore. Ma quando le cose vanno bene. Era una gran bella squadra con Zoff, Panzanato, Bianchi, Juliano Altafini e Sormani. Finimmo terzi. La leggerezza, il modo di fare dei napoletani mi ha fatto trascorrere un bel periodo”

Con la Nazionale svedese aveva collezionato 17 reti in 32 partite. Lasciò Napoli per tornare a Firenze, la sua patria di elezione, dove tuttora vive e contatti… inevitabili col mondo del calcio, visto che una delle sue figlie ha sposato Moreno Roggi, ex gloria viola e poi procuratore di grande successo. Quel suo volo da Uccellino si libra ancora oggi nella memoria degli appassionati meno giovani.

 

 

 

Julinho

 

Julio Botelho detto Julinho (San Paolo, 29 luglio 1929 – San Paolo, 11 gennaio 2003) è stato un attaccante brasiliano. Considerato, dopo Garrincha, la migliore ala destra del calcio brasiliano, ha legato indissolubilmente il proprio nome al primo storico scudetto conquistato dalla Fiorentina nel campionato 1955-1956.

Il calcio italiano notò presto quel brasiliano dall’aria compassata, Julinho realizzò un gol-capolavoro contro la grande Ungheria nel quarto di finale perso dal Brasile e da allora attrasse l’attenzione dei grandi club italiani ed europei. Fu la Fiorentina, nel 1955, ad aggiudicarselo, per la somma allora altissima di 5.500 dollari. Il giocatore era stato notato dall’allenatore Fulvio Bernardini, il quale affermò che «un’ala può arrivare a Julinho, non oltre». Provvidenziale per il tesseramento fu la discussa scoperta di un avo lucchese, tale Bottelli, nell’albero genealogico del campione brasiliano, che poté essere quindi acquistato come oriundo; in realtà, si scoprì successivamente che l’antenato, il quale avrebbe dovuto esserne il nonno, era un prete, e la Fiorentina subì un processo penale per alterazione di stato civile. Julinho, attaccatissimo al proprio Paese, rifiutò sempre di indossare i colori azzurri. Non prese parte al Mondiale del 1958 perché il selezionatore Vicente Feola non intendeva convocare nessuno che non militasse in Brasile, sebbene per lui fosse disposto a fare un’eccezione, ma Julinho affermò tuttavia di non volere togliere il posto a chi se lo era conquistato giocando in patria.

Primo giocatore brasiliano della storia del club, in maglia viola Julinho disputò 98 incontri (89 in Serie A, 7 in Coppa Campioni e 2 in Coppa Grasshoppers) segnando 23 reti (22 in Serie A ed 1 in Coppa Campioni). Imprendibile sulla fascia, era capace di scardinare intere difese per poi servire cross forti e radenti al meno tecnico centravanti Virgili.

La Sua prima rete ufficiale viola a Busto Arsizio contro la Pro Patria

Nel primo biennio Julinho aggiunge al proprio curriculum di vittorie un Campionato italiano nel 1956 e una Coppa Grasshoppers nel 1957. E se un arbitro distratto e condizionato dall’ambiente non si fosse piegato alle logiche della sudditanza e del potere, Julinho e la Sua squadra, la nostra, avrebbero forse nel proprio palmarès anche una Coppa dei Campioni, quella del 1957.

Nel 1958, al termine di una stagione nella quale la Fiorentina si era nuovamente piazzata seconda, Julinho tornò in Brasile nel Palmeiras, con cui giocò fino al 1967 per complessive 266 partite (77 gol), conquistando i campionati paulisti del 1959, 1963 e 1966. Ma non aveva nemmeno dimenticato Firenze e la Fiorentina: alla sua morte si è appreso che aveva fatto dipingere di viola i muri della sua stanza e aveva disposto che sulla sua bara, insieme a quelli delle altre società in cui aveva militato, fosse steso un labaro viola. Nel 2013 entra nella Hall of Fame Viola. Il 31 luglio 2014, si è giocato in suo onore, il trofeo Julio Julinho Botelho, vinto dal Palmeiras contro la Fiorentina 2-1.

 

 

Stagione Squadra Campionato Coppe nazionali Coppe continentali Altre coppe Totale
Comp Pres Reti Comp Pres Reti Comp Pres Reti Comp Pres Reti Pres Reti
1955-1956 Fiorentina A 31 6 CG 1 32 6
1956-1957 A 30 9 CC 7 1 CG 1 38 10
1957-1958 A 28 7 CI 28 7
Totale Fiorentina 89 22 7 1 2 98 23

Carlos Dunga

 

Carlos Caetano Bledorn Verri, meglio noto come Dunga è nato a Ijuí il 31 ottobre 1963. E’ stato capitano della Nazionale brasiliana e campione del mondo 1994 che tra l’altro è stato il commissario tecnico dal 2006 al 2010 e dal  2014 al 2016, guidandola alla vittoria nella Copa América 2007 e alla FIFA Confederations Cup 2009. Il soprannome Dunga è la traduzione in portoghese di Cucciolo, uno dei Sette Nani.

Centrocampista con attitudini difensive, buon palleggio e preciso tiro dalla distanza ne aumentavano l’efficacia offensiva. Si posizionava davanti alla difesa, fermando le azioni avversarie; nel suo repertorio spiccava il lancio lungo, effettuato sovente con l’esterno del piede destro. Era un interditore di stile europeo, diverso dai raffinati centrocampisti brasiliani, ma dava un grande contributo alla manovra grazie al senso tattico e a una naturale predisposizione alla regia. Dotato di grande temperamento e autentico leader in campo, era famoso per la foga con cui difendeva e per la straordinaria voglia di vincere.

Iniziò la carriera nell’Internacional di Porto Alegre. Nel 1984 fu acquistato dalla Fiorentina nell’affare Socrates, ma fu deciso di lasciarlo giocare in Brasile tre anni per maturare. Si trasferì al Corinthians per poi passare nel 1986 al Santos, e nel 1987 al Vasco da Gama.

Nell’autunno del 1987 approdò in Italia e la società viola lo dette in prestito al Pisa: con i nerazzurri Dunga raggiunse una sospirata salvezza. Nel 1988 arrivò a Firenze (perse la doppia finale di Coppa UEFA 1989-1990 contro la Juventus). Nel 1992 fu messo fuori rosa dal vicepresidente Cecchi Gori e fu poi ceduto al Pescara: con il club biancazzurro retrocesse, dopo di che chiuse la sua esperienza italiana.

Conta 91 presenze e 6 gol nella nazionale maggiore, con cui esordì nel 1987. Dopo il trionfo nella Copa América 1989, arrivò la delusione ai Mondiali del 1990, dove uscì negli ottavi di finale contro i campioni uscenti dell’Argentina, che avrebbero poi perso la finale con la Germania.

Ai Mondiali 1994 fu per quasi tutte le partite il capitano della squadra. Segnò il quarto dei tiri di rigore della vittoriosa finale contro l’Italia. Nel 1997 trionfò nuovamente in Copa América. Rimase il capitano della squadra e chiuse la carriera internazionale ai Mondiali 1998, in cui segnò il quarto rigore della serie brasiliana nella semifinale contro i Paesi Bassi prima di perdere la finale contro la squadra padrona di casa

 

 

Daniele Alberto Passarella

Daniel Alberto Passarella è nato a Chacabuco il 25 maggio 1953. Calciatore viola dall’82 al’86, difensore. Campione del mondo con la Nazionale argentina nel 1978 e nel 1986. È l’unico argentino ad aver vinto due volte la Coppa del mondo.

Considerato uno dei migliori calciatori argentini di sempre, nel marzo del 2004 è stato inserito da Pelé all’interno del FIFA 100, classifica riportante i 125 più grandi giocatori di tutti i tempi.

Discendente di immigrati italiani provenienti da Catania, Passarella iniziò a giocare con una squadra locale, il Sarmiento de Junín. Qui fu notato dai dirigenti del River Plate, che nel 1974 lo ingaggiarono. Titolare fin dal primo momento, nel 1977 segnò 24 gol nella massima serie argentina, della quale fu anche nominato miglior giocatore. Con il River vinse quattro titoli metropolitani e tre nazionali, entrando anche nel giro della selecciòn, e nell’estate del 1982, dopo aver disputato un buon mondiale, si trasferì in Italia ingaggiato dalla Fiorentina.

Dopo quattro buone stagioni nella squadra toscana, nella quale stabilì il primato di segnature (11) per un difensore, venne acquistato dall’Inter per un miliardo di lire.

In totale Passarella ha realizzato 178 reti (di cui 22 in Nazionale), che ne fanno il secondo difensore della storia di questo sport in ordine di marcature realizzate (primo è l’olandese Ronald Koeman con 207 gol).

Soprannominato El Caudillo (riprendendo il nomignolo attribuito al generale Francisco Franco) e Il Grande Capitano per le sue notevoli capacità di leadership, durante le sue esperienze in Nazionale Passarella entrò in contrasto con Diego Armando Maradona, altro giocatore dalla forte personalità. In ogni caso egli fu uno di quei giocatori che fece grande l’Argentina: con i biancoazzurri Passarella vinse infatti il campionato del mondo 1978. Non giocò invece – a causa di un infortunio (fu colto, assieme ad altri atleti, dalla cosiddetta “maledizione di Montezuma”, consistente in forti coliche) – nel campionato del mondo 1986 pur essendo nella lista dei 22 convocati. Secondo alcuni, Passarella venne escluso dai titolari per dei dissapori con Maradona. Durante la competizione il commissario tecnico Bilardo schierò al suo posto Josè Luis Brown, che ben figurò e segnò anche un gol nella finale contro la Germania Ovest. Passarella resta comunque l’unico calciatore non brasiliano o italiano ad aver vinto 2 mondiali.

Dopo il suo ritiro dall’agonismo Passarella ha intrapreso la carriera di allenatore. Ha guidato dal 1º agosto 1989 al 1º agosto 1994 il River Plate, con cui ha vinto numerosi titoli nazionali, e poi dal 27 agosto 1994 al 1º agosto 1998 l’Argentina, con cui ha partecipato ai mondiali di Francia ’98.

Successivamente divenne allenatore dell’Uruguay. Dopo un biennio stentato, il CT si dimise nel gennaio del 2001, poi approdò sulla panchina del Parma il 6 novembre 2001: la sua avventura in Emilia terminò già il 18 dicembre successivo dopo solo cinque partite di campionato, tutte perse.

Il 1º luglio 2002 si trasferì in Messico, dove guidò il Monterrey alla conquista dello scudetto messicano. Viene esonerato il 20 dicembre 2003. Il 3 marzo 2005 passò ad allenare i brasiliani del Corinthians, ma venne esonerato il 10 maggio a causa dei risultati sportivi della squadra.

Il 10 gennaio 2006 firmò di nuovo per il River Plate. Lasciò la guida il 15 novembre 2007

Nel dicembre 2008 annuncia la propria candidatura come presidente del River Plate. Così il 5 dicembre 2009 viene eletto presidente del club argentino: entra in carica ufficialmente il 9 dicembre. Successivamente il 6 novembre 2013, dopo quattro anni, lascia il club affermando di non avere più la passione per il club, rinunciando a un secondo mandato.

 

 

 

Stagione Squadra Campionato Coppe nazionali Coppe continentali Altre coppe Totale
Comp Pres Reti Comp Pres Reti Comp Pres Reti Comp Pres Reti Pres Reti
1982-1983 Italia Fiorentina A 27 3 CI 5 0 CU 2 0 34 3
1983-1984 A 27 7 CI 7 1 34 8
1984-1985 A 26 5 CI 6 3 CU 3 1 35 9
1985-1986 A 29 11 CI 7 4 36 15
Totale Fiorentina 109 26 25 8 5 1 139 35